Ci sono tracce virtuali che, per fortuna, conducono nel mondo reale. È il caso delle sagome di uccelli tra i filari apparse sui canali web di Cascina Castlet della vignaiola pasionaria Mariuccia Borio da Costigliole d’Asti.
Vederli su Facebook o su Instagram e decidere di andarli a vedere di persona è stato facile.
Poi lì, nel cortile della maison vitivinicola, incontri Mariuccia che ti porta a vedere queste sagome messe per attirare volatili che hanno a disposizione anche piccoli nidi artificiali. Il tutto serve per mantenere la fauna tipica dei filari che garantisce biodiversità e sanità di ambiente. Quella della sostenibilità per Mariuccia è una vera disciplina del cuore che è diventata pratica quotidiana con i pannelli fotovoltaici, l’impianto di fitodepurazione e il riciclo della acque in cantina. Spiega la vignaiola di Costigliole: «Siamo rispettosi della natura che ci circonda. Lo dobbiamo a noi e a chi arriverà dopo». Impeccabile.
Poi il discorso vira sulla salvaguardia dei vigneti autoctoni.
Mariuccia ne ha salvato uno, trent’anni fa. Si chiama Uvalino e se non fosse stato per lei oggi non ce ne sarebbe neppure una vite.
Invece non solo a Cascina Castlet ne hanno un ettaro e mezzo, ma ne producono anche 4 mila bottiglie, un’inezia, certo, ma un segno che l’Uvalino, il vitigno in via d’estinzione esiste ancora, è vivo e lotta insieme a noi.
Mariuccia racconta della nascita del progetto, nel 1990.
Anticamente tutte le famiglie avevano almeno un filare di uvalino. «Vite e grappoli non assomigliano a nessun altro vitigno. È unico» dice. Era utilizzato come miglioratore di altri vini o, spremuto con altre vinacce, per produrre il vinello per uso famigliare o, in purezza, per vinificare un vino raro e salutare che si dava alle donne incinte, ai malati o alle persone importanti che visitavano la famiglia.
Insomma un vino-oro pregiato, una gemma enologica a cui la saggezza popolare attribuiva alte qualità di bontà quasi farmacologica.
E tuttavia, nonostante queste suo ottime qualità, Uvalino venne dimenticato. Le sue viti confuse con altre a bacca nera, i grappoli vendemmiate con la barbera o il dolcetto. Un genocidio ampelografico.
Solo nel 1990, però, Mariuccia Borio ne riscopre un filare e comincia l’avventura fatta di sperimentazioni, ricerche e riscontri scientifici affidati a importanti Istituti che certificano le qualità originali e eccezionali di Uvalino. In particolare c’è quel dato sul resveratrolo, l’alcol buon presente soprattutto nei vini rossi che sarebbe spazzino delle arterie favorendo la buona salute del sistema cariocircolatorio. Uvalino ne avrebbe in percentuale nettamente maggiore rispetto agli altri vini rossi. Ecco quindi l’ipotesi che tutto sommato la saggezza popolare avesse qualche fondamento. È un vino che fa bene al cuore e al corpo e fa “buon sangue”.
Da quel progetto Uvalino nasce Uceline, «Il nome che si dava al vino fatto con i grappoli di Uvalino che gli uccellini becchettavano e che si vendemmiavano a novembre» dice la vignaiola di Costigliole che ora è contenta: «Perché ora , a quasi trent0’anni da quel sogno, Uceline è un vino molto apprezzato. Sempre più appassionati di vino lo ricercano perché viene da un vitigno e un’uva rara e che stava per scomparire. Salvarla – sostiene Mariuccia – è stato un atto d’amore per la nostra storia e tutta l’umanità».
Le foto di Mariuccia Borio sono di Laura Molinari