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Reportage. Nell’estate degli scontrini d’oro SdP propone un classico: il diario delle vacanze tra luci (poche) e molte ombre…

Dunque l’estate degli scontrini sta finendo. Tra le polemiche. Potevamo noi di SdP non cavalcare l’onda? Sì e lo abbiamo fatto. Niente conti strappaportafogli, osti sanguisughe o locali vip succhiasangue. Ecco ai nostri lettori, più semplicemente, quello che abbiamo visto e sentito passando una settimana sulla costa friulana.

Sull’autostrada una sosta all’autogrill è un rito che in Italia si fa da generazioni, come il pranzo di Natale o la scampagnata a Pasquetta. Quindi ci si ferma. E mentre attendiamo pazienti in coda alla cassa ecco altre casse (rosse) che attirano la nostra attenzione. È la campagna promozionale (?) di alcune cantine italiane che, in periodo di crisi, propongono svendite dei propri gioielli. Essì perché un Barolo docg a meno di 10 euro (9,99 per l’esattezza) non si vede e si compra spesso.

reportage estate 2013

Ora insorgeranno i soliti bastian contrari, i cinici inguaribili, a dire che son cose risapute e che attengono alle strategie aziendali per far fuori rimanenze e invenduto. Tuttavia a noi, che restiamo così ingenui da pensare che un vino di pregio deve essere valorizzato e non oggetto di svendite, un po’ di amaro in bocca a vedere il Re dei Vini trattato da scudiero. Non è il solo, è vero. Ma sapete come si dice, se sei in alto e cadi fai più rumore di uno che sta più in basso. Così la Bonarda o il Chianti (però docg!) o il Dolcetto d’Alba venduti a prezzi da saldo, fan meno impressione. Che volete, siamo inguaribili eno-romantici (qualcuno direbbe fessacchiotti, ma tant’è).

Ora passiamo alla proverbiale accoglienza friulana, seppure di costa. Niente da dire. Gente cordiale i friulani di mare. Tanto da interpretare la Gubana, la torta tipica di quelle parti, come un viatico per il ritorno del turista a casa sua. Dialogo con una panettiera da cui abbiamo appena comprato la Gubana: «andate via», «no», «perché di solito chi compra la Gubana torna a casa», «No, restiamo ancora qualche giorno», «Ah, allora la mangiate…» (solo pensato: “no, guarda, la tengo come soprammobile”). È vero sembra un dialogo della panchina tra Ale e Franz i comici di Zelig. Invece è capitato davvero.

Nei locali mediamente si mangia bene. Poco il pesce fresco, molto quello surgelato. bene che lo scrivono sul menù. A proposito di menù, possibile che il piatto tipico dell’estate friulana sul mare siano gli scialatielli napoletani? Ma non facciamo gli schizzinosi. Qualcosa di friulano l’abbiamo trovato, il vino Friulano, appunto, l’ex Tokai che oggi si può chiamare solo Friulano perché gli ungheresi che fanno un vino che si chiama uguale ma è diverso. Ottimo vino di una ottima cantina. Quello che è stato meno ottimo è stato come ci è stato proposto. Cameriere: «da bere?», «Una bottiglia di Friulano», «Bottiglia o caraffa?», «Bottiglia», «È lo stesso produttore…» «Bottiglia», «Il vino è lo stesso…», «Bottiglia»… abbiamo avuto la bottiglia, alla fine. Ma perché tutta questa voglia di ammollarci la caraffa? Mah.

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Sempre in tema di vino ci siamo imbattuti nel Prosecco sfuso, venduto in caraffe di vari volumi. Ci è parso un po’ curioso trovare un vino spumante (doc, ma c’è anche la docg Valdobbiadene) sfuso. Abbiamo chiesto lumi ad amici enologi e ci hanno detto che in realtà dovrebbe trattarsi di vino da uve glera (è il nome che si è dato al vitigno da cui si fa il famoso Prosecco spumante). Tuttavia, come si evince dal sito del Consorzio di Valdobbiadene, ci sono anche tipologie Prosecco frizzante e fermo. Dunque lo “sfuso” ha diritto di esistere. Però resta la perplessità di un vino sfuso che, a nostro parere, sfrutta l’onda del Prosecco spumante (doc e docg) fenomeno enologico mondiale da centinaia di milioni di bottiglie. È cosa lecita, certo. Ma forse obbligare a indicare nella lista dei vini di qualche prosecco stiamo parlando, se spumante, frizzante o fermo, non sarebbe una cattiva idea. Promemoria per i Consorzi del Prosecco (doc e docg).

Infine parliamo di accoglienza ai tavoli. Nella settimana del nostro reportage, quella “caldissima” di Ferragosto, abbiamo visto di tutto. Dai camerieri sull’orlo di una crisi di nervi che suggeriscono la comanda al commensale («prendo la zuppa di pesce», «No, guarda il cuoco mi ammazza. Prendi quello che prendono i tuoi amici») ai cuochi che mettono le mani avanti spiegando in un “pizzino” stampato sul menù che per mangiare bene dove aspettare «perché facciamo tutto al momento» (non dovrebbe essere tutto così, come insegna Gordon Ramsey?) alla cameriera di Venezia (che è a due passi dalla costa friulana) che accende un cero alla Madonna quando gli diciamo che siamo italiani e che davanti a due tavoli di giapponesi e tedeschi si esibisce in mimiche facciali e gesticolatorie che manco Dario Fo (a Venezia almeno un po’ di inglese…).

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Per le cose positive: quasi sempre buoni piatti, porzioni generose (nella Venezia degli scontrini pazzi abbiamo mangiato in 3 con 56 euro, qui), cortesia diffusa. Manca, però, il quid del “italians do it better” (gli italiani lo fanno meglio).

Sarà la crisi, il momento politico-sociale-culturale. Sarà che quasi tutti i camerieri erano stranieri (italiani pigri?). È mancato, a nostro avviso, il calore italiano, la luce del Belpaese a tavola. Quella che ti fa dire: «cavolo! io qui ci tornerei» Del resto su 8 locali visitati solo uno, a fine cena, ha offerto (dopo il pagamento e alla cassa) un ammazza caffè, piccolo gesto di ospitalità che ci ha resi orgogliosi. Che volete… siamo ingenui e romantici.

SdP     

 

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