Oggi è il 25 aprile e Sdp pubblica una favola scritta dal nostro Filippo Larganà. È un racconto che tratta dei destini di uomini e sapori del Piemonte, spesso fortemente intrecciati. Naturalmente tutti i protagonisti della vicenda sono inventati.
Tutti tranne uno: il vino Moscato. Buona lettura.
IL VINO DI DAVID
di Filippo Larganà
David Gross vive ad Haifa, in Israele. Dalla sua casa, sul monte Carmelo, si vede il mare. Ha ottant’anni, è nato a Zagabria, ma tanti anni fa, per colpa dell’invasione nazista, ha dovuto fuggire dalla sua patria, lasciando lì famiglia, cuore, anima. Per tutta la vita ha fatto il medico, ha curato le ferite degli altri, forse anche un po’ per attenuare le sofferenze di chi, come lui, si sente esule per sempre.
Ora è in pensione, ha tempo per viaggiare e ricordare. In settembre prende un aereo e va Italia. Deve riannodare un filo rosso che lo lega a Canelli, un paese, nel Sud del Piemonte dove ci sono panorami unici al mondo, con colline coperte da vigneti che sembrano un mare, proprio come quello che vede da casa sua. E poi a settembre c’è la vendemmia con l’odore dell’uva appena raccolta.
Quel profumo gli ricorda qualcosa che è accaduto tanto tempo prima, quando gli uomini si scannavano tra loro e il mondo sembrava impazzito. Come adesso, insomma. La memoria di David corre al settembre del 1943. Gli italiani, fino a quel momento alleati con i tedeschi, hanno appena firmato un armistizio con gli americani che combattono Hitler. I nazisti, traditi, da amici sono diventati truppe d’occupazione.
A Canelli ha trovato rifugio un gruppo di ebrei jugoslavi, arrivati lì non si sa come e perché. Le Schutzstaffel, le famigerate SS, però, hanno ordini precisi: deportare nei campi di sterminio tutti gli ebrei che si trovano in territorio italiano. I controlli dei militari sono stati intensificati. In una sola notte l’intero paese è passato al setaccio. C’è stata una soffiata.
La casa di una famiglia che ha una piccola cantina, è circondata. Il giovane tenente tedesco incaricato del rastrellamento pensa che le grandi botti da vino sarebbero un nascondiglio ideale per dei fuggiaschi. Con il calcio della Luger d’ordinanza picchia sul legno del portone. Dopo qualche momento il portone si apre.
Piantato in mezzo al cortile c’è un ragazzo che ha più o meno la sua età. Si chiama Luigi. È il figlio del padrone della cascina. Il tedesco si volta e fa un cenno, un sergente urla ordini secchi, i soldati entrano correndo nel cortile. Alcuni si precipitano lungo una scala che porta alla cantina. «Dove sono?» chiede l’ufficiale. Luigi guarda le mostrine con la doppia esse che brillano sul colletto rigido dell’uniforme e pensa “Assomigliano alla stella cometa che si mette a sull’albero a Natale, vicino al camino”. Poi allarga le braccia. La cantina è poco illuminata. L’unica lampadina dà una luce debole, si vedono appena tre grandi botti e una catasta di bottiglie. Il tenente con le mostrine luccicanti colpisce ogni fusto con la mano aperta.
Uno rimanda un rimbombo cupo. Sorride gelido. «Voglio assaggiare questo vino». «Non è ancora pronto» risponde Luigi.,«Voglio bere, ora!» ribatte il tedesco e alza la pistola. Luigi non si muove. «Schnell!» urla il sergente. Allora il giovane vinaio prende un bicchiere, lo mette sotto il rubinetto della botte che ha indicato il tenente delle SS e ruota la leva. Un vino giallo, frizzante e dall’aroma inebriante, sgorga dalla botte. Sul viso dell’ufficiale delle SS si dipinge una smorfia di stizza, le labbra serrate sui denti. I tedeschi se ne vanno. Luigi rimane con il bicchiere in mano, guarda la schiuma bianca che trabocca e gli bagna le dita. Gocce di sudore ghiacciato gli segnano le tempie.
In quel settembre del 1943 David Gross aveva 18 anni, era nascosto in quella botte vuota da cui zampillò Moscato. Insieme con lui, tremanti di paura e quasi soffocati dalle esalazioni dei residui vinosi, c’erano sua cugina Tamara di 17 anni, il suo fratellino Dan di 4 e gli zii Teresa e Otto Gross. La mattina dopo erano già in marcia verso la Svizzera. Sono passati sessant’anni da quella notte. David è a Canelli, davanti ad un portone di legno scuro. Bussa, gli apre un vecchio. Si riconoscono, si abbracciano. E piangono.
Più tardi seduti davanti ad una grande botte bevono in silenzio, i calici colmi di Moscato fresco. Dopo un po’ Luigi chiede: «Come hai fatto, quella notte quando ho aperto il rubinetto». David fissa per qualche secondo il bicchiere, poi risponde: «Non sai quanti miracoli può fare una bottiglia di vino». Ridono.
Anche io ero sfollato a Canelli con la mia sorella Mirjam mio padre alfred e la mia mamma Lilli.
& mesi fa sono ritornato a Canelli con la mia sorella e o visitato Beppe Bielli, la sua famiglia e Nani Ponti.
Mi ricordo di Otto Gross e le sue due siglie Tamara e Diana!!
condivido l’analisi e ringrazio dei complimenti. Beh, devo confessare che qualche tratto dei personaggi è reale. A Canelli, per esempio, durante la seconda guerra mondiale soggiornò per davvero un gruppo di ebrei jugoslavi. Ho raccolto del materiale su questa storia e ci sono spunti davvero interessanti.
Bella favola. Che, con qualche piccola variante, è stata sicuramente storia vera. Di contadini che hanno salvato ebrei, partigiani, disertori di Salò. Di uomini che hanno fatto il vino e, insieme ad esso, la Storia.