Ospitiamo volentieri l’intervento di Ernesto Abbona della Cantina Marchesi di Barolo, già presidente della UIV (Unione Italiana Vini), che, con dovizia di informazioni storiche, fa chiarezza sulle origini del vino Barolo. Scrive Abbona:
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“Nel ricercare informazioni sull’enologo Arnaldo Strucchi, ho aperto il sito da lei curato e, nel ringraziarla per avermi fornito quanto di mio interesse, Le segnalo un’erronea indicazione. Lei in premessa scrive: «C’è un filo rosso che lega la storia d’Italia con il vino. Non solo perché fu il conte Camillo Benso, fautore dell’Unità nazionale, a “inventare” il Barolo…».
Infatti, non è solo Don Domenico Massè, Rettore del Collegio Barolo ne «Il Paese del Barolo» edito nel 1928 ad affermare a pag. 48: «Poiché a creare quel tipo di vino che va ora sotto il titolo di Barolo furono i Marchesi Falletti al principio dell’ottocento, i quali lo producevano con ogni cura nelle loro estesissime tenute di Barolo e Serralunga, e, valendosi delle loro numerose conoscenze e dei loro lunghi viaggi, lo fecero conoscere ed apprezzare…».
Anche Lorenzo Fantini, geometra di Monforte d’Alba, nel 1883 redige la «Monografia sulla Viticultura ed Enologia nella Provincia di Cuneo» in occasione dell’Esposizione Provinciale di Cuneo. Quest’opera, scritta a mano, in bella calligrafia, è d’interesse eccezionale. La reputazione del geom. Fantini era tale che Il capitolo «il Barolo» viene successivamente stampato nell’edizione del 1884 de «Il Giornale Vinicolo Italiano» dove, a pag. 270, viene riportato quanto scritto a mano nella Monografia: «… Eppoi, chi ha fatto la nomea a questo nebbiolo? Tutti lo sanno che sono i vini del compianto Marchese di Barolo, il quale in tempi in cui non si conosceva neanco di fama l’esportazione, sia pei mezzi che disponeva, sia ancora per le immense ed elevate relazioni che aveva, potè far conoscere i suoi vini in paesi in cui nessuno poteva far arrivare i suoi. Lo si chiamò semplicemente Barolo perché tale era il nome del comune da cui proveniva…».
Inoltre, Giorgio Gallesio (Finalborgo 1772 – Firenze 1839), insigne botanico, sepolto tra gli uomini illustri nel chiostro della Basilica di Santa Croce in Firenze, ne «I Giornali dei Viaggi» edito dalla Reale Accademia dei Georgofili, così descrive la Sua visita a Barolo il 19 settembre 1834: «Il vino di Barolo dura molti anni e il Marchese di Barolo lo conserva per mandarlo alla Corte di Torino e ad altri… «…Ho visitato la cantina del marchese Barolo: è un gran semi-sotterraneo con volte a botte sopra del quale vi è la tinaia. Vi erano 30 botti, in gran parte di vini vecchi …».
E Domi Gianoglio, nato ad Alba, giornalista al Popolo Nuovo, ne «Invito alle Langhe» del 1965 a pag. 33 scrive: «Il nome, che lo ha portato nel mondo come uno dei migliori vini d’arrosto, gli deriva dal Comune di Barolo e più dalle alte relazioni del Marchese di Barolo…» E, nella successiva pag. 34:«Il maggior merito della fama attuale del barolo spetta indubbiamente al Marchese Tancredi falletti di Barolo, proprietario degli splendidi vigneti del paese e di quelli di Serralunga d’Alba, passati poi all’omonima Opera Pia, riccamente dotata dalla Sua vedova, Giulia Colbert di Maulévrier…»
E Cristina Siccardi nella Nota 7 del Volume «Carlo Tancredi Falletti di Barolo. L’anonimato di un genio nell’Italia risorgimentale»: «Il nome Barolo è conosciuto in tutto il mondo per l’ottimo vino «Re dei vini» e «vino dei re» che di esso porta l’etichetta. All’inizio del secolo scorso (si riferisce al XIX° Secolo) il vino Barolo iniziò per primo, in Piemonte, il ciclo che doveva poi orientare la produzione subalpina verso i vini secchi, anziché su quelli dolci»…«Furono proprio i marchesi Falletti ad incrementare tale produzione, facendo fermentare totalmente il mosto delle uve Nebbiolo – ottenendo così il Barolo – dei vastissimi possedimenti di Barolo, Serralunga, La Morra, influenzati da quanto avevano appreso dai frequenti contatti con la nobiltà francese della Borgogna, ormai esperti di vini secchi»…«I Savoia restarono ammagliati dal Barolo e dopo di loro Cavour, cultore di vigne».
Lo afferma anche Renato Ratti, negli anni’80 Presidente del Consorzio di Tutela del Barolo e del Barbaresco: «Furono i Marchesi Falletti a far fermentare totalmente il mosto delle uve Nebbiolo dei vastissimi possedimenti di Barolo, Serralunga, La Morra, influenzati da quanto avevano appreso nei frequenti contatti con la nobiltà francese della Borgogna, che già aveva indirizzato la propria produzione verso i vini secchi». Guida ai Vini del Piemonte, pag. 111-112, Eda Edizioni, 31 ottobre 1977.
E, ciliegina sulla torta, proprio la relazione dell’Enologo Arnaldo Strucchi «La Viticoltura e l’Enologia all’Esposizione Nazionale di Torino» del 1884, presente nel fascicolo N.9 del volume «Le Viti Americane la Filossera e altre Malattie della Vite» Anno III, stampato in Alba dalla Tipografia Ved. Marengo e Degiacomi, pone data certa alla nascita del Barolo, attribuendone espressamente il merito al Marchese di Barolo Carlo Tancredi Falletti. Infatti, nella relazione sui vini partecipanti all’Esposizione Generale di Torino del 1884, l’enologo Arnaldo Strucchi scrive testualmente: «La rinomanza del Barolo non è molto antica neppur essa, risale a soli sessant’anni fa, e ne è dato merito al Marchese Falletti di Barolo, dignitario di Corte e ricchissimo proprietario di terre».
Pertanto, Arnaldo Strucchi attribuisce la nascita del Barolo al Marchese Carlo Tancredi, datandola inequivocabilmente all’inizio degli anni ’20 del 1800 (1884 – 60 anni = 1824).
Le sarei grato, pertanto, se volesse correttamente attribuire la paternità del Barolo ai Marchesi di Barolo, Carlo Tancredi Falletti e Giulia Colbert”.
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Nel ringraziare Ernesto Abbona per il puntuale e prezioso intervento ci corre l’obbligo di precisare che, per sintesi giornalistica, abbiamo attribuito al Conte Cavour l’”invenzione” del Barolo. Un’espressione che del resto è utilizzata ancora da molte fonti.
E se, come giustamente sottolinea Abbona, la paternità e il successo del Barolo vanno senza dubbio alcuno attribuiti alla famiglia Falletti-Colbert, a nostra parziale scusante ci sia consentito dire che anche il Conte dell’Unità d’Italia fece la sua parte.
Lo raccontano, infatti, varie ricostruzioni storiche e persino i siti web di qualche produttore di Barolo, dove si parla di Cavour come tra i primi ad accorgersi dell’alto valore di quel vino di Langa che poteva rivaleggiare con i celebrati rossi francesi.
Si può ben dire, dunque, che Camillo Benso Conte di Cavour, per il Barolo, non fu solo un piemontese (e produttore) che credette nel valore del “re dei vini”, ma anche un accreditato influencer ante litteram e, come sostengono alcuni, forte promotore di una “crociata” a favore del nobile grande vino rosso piemontese utilizzandolo come vino istituzionale per ritrovi più o meno formali, compresi i festeggiamenti per l’Unità d’Italia, nel 1861.
fi.l.
(foto di copertina da marchesibarolo.com – altre foto da web)
Grazie per il contributo MAF.
Grazie per aver condiviso queste note appassionate di Ernesto Abbona.
Non si può però considerare attestata alcuna paternità: non di Cavour, non di Staglieno, non dei Marchesi né tantomeno del mitico commerciante di vini Oudart, che per fortuna è già stato restituito al proprio ruolo da un bel libro di Ricciardi oltre dieci anni fa.
Il Barolo è nato in una temperie culturale.
Giravano informazioni frammentarie, mancava completamente la cultura microbiologica, per l’ovvia ragione che solo nel 1860 Pasteur avrebbe scoperto il ruolo dei saccaromiceti, ma certamente, gente che veniva dalla Francia e viaggiava spesso in Francia aveva piena contezza del fatto che vini serbevoli erano vini limpidi, fragranti e longevi.
Ne consegue un dato storico certo: il decennio chiave è quello degli anni 30 del XIX secolo.
In quel decennio, il ventenne Cavour è a Grinzane, la marchesa Colbert è sposata a Barolo, Oudart sta producendo i primi vini a imitazione degli spumanti francesi a Genova e Staglieno viene chiamato a Pollenzo.
Singolarmente, quest’ultimo scende a Pollenzo dopo essere stato governatore del forte di Bard, dove lo ha probabilmente conosciuto Cavour. E quest’ultimo è stato per tutta la vita in una affettuosissima relazione epistolare con la marchesa di Barolo.
Nessuna testimonianza successiva è fededegna. Tantomeno quelle novecentesche.
La data cert, che Abbona attribuisce a Strucchi non può essere considerata tale: l’operazione aritmetica che egli svolge, infatti, fonda su una affermazione senza alcun supporto da parte dell’enologo.
L’unito ad avere dato una testimonianza coeva ( ma appunto degli anni ’30) è Giorgio Gallesio (che muore nel 1839) ma Abbona lo riport ain modo in completo: è vero infatti che il sommo pomologo ricorda le botti di vino vecchio del Marchese di Barolo, ma omette di dire che a Barolo si ritiene necessario fare il vino di puro nebbiolo o al massimo con del Neiran (forse Chatus?), per dargli colore “altrimenti il nebbiolo è troppo chiaro e troppo DOLCE”.
Segno evidente che all’epoca, sulla modalità secca di produzione del Barolo, connaturale alla sua identità, per come la intendiamo oggi, esistevano ancora molteplici variazioni. A tal proposito ricorda Gallesio che aveva assaggiato l’annata 1833 del Barolo dei Marchesi e lo aveva trovato “aspro e ingrato”: certamente, era l’inizio di un modus novus per produrre. Sarebbero occorsi alcuni anni perché si affermasse. Stabilire oggi se ciò accadde prima nelle cantine di Grinzane, Barolo o Pollenzo è una tematica degna di Dan Brown, più che della storiografia. E tutto sommato, forse non è nemmeno così importante.