Qualche settimana fa, a un convengo sul cambiamento climatico organizzato da un Consorzio vitivinicolo piemontese, un noto ed esperto climatologo, Luca Mercalli, confermò, dati e ricerche scientifiche alla mano, che il riscaldamento globale è realtà, è provocato dalle attività umane con una accelerazione preoccupante nei ultimi anni e che se le cose continueranno in questo modo e non saranno prese contromisure per ridurre l’impatto dell’inquinamento in un decennio le aree come l’Italia e il Piemonte porrebbero avere un clima arido simile a quello di regioni asiatiche o africane con ripercussioni catastrofiche, che in parte sono già visibili, su ambiente e coltivazioni, vigneti compresi.
Poco tempo dopo quell’intervento, nel corso di un altro convegno, a chi riportò quelle dichiarazioni fu risposto, da uno dei relatori, che si trattava quanto meno di esagerazioni. Naturalmente chi lo disse non era e non è né un esperto di clima né uno scienziato e non portò nessun dato o ricerca a supporto della propria tesi. Semplicemente la dichiarò.
Oggi, a fine febbraio 2024, invece di neve, pioggia e temperature gelide, abbiamo una primavera anticipata con punte di 20°, alberi fioriti e insetti in attività. Non è normale. Neppure per chi sostiene trattarsi di un ciclo planetario che, secondo gli studiosi, ha tempi ben diversi.
Intanto, a mesi dall’ultima vendemmia, la situazione delle vigne in Italia e in Piemonte è peggiorata. Molti produttori vitivinicoli denunciano l’estrema sofferenza delle viti per una siccità che piogge sporadiche non risolvono; altri vignaioli hanno segnalato un calo delle rese, e quindi del raccolto e dunque del reddito, anche del 40% causa carenza idrica a cui devono aggiungere almeno il raddoppio delle spese di conduzione e produzione. Per molte varietà viticole le posizioni più fresche, prima ritenute meno appetibili rispetto a quello a Sud, ora sono da preferire perché assicurerebbero rese più alte rispetto alle posizioni più esposte al sole. E c’è chi parla dei “sorì”, le vigne più soleggiate e “nobili” di molte varietà, come zone addirittura a rischio desertificazione per l’eccessiva insolazione. A questo proposito, poche settimane fa, il Consorzio Barolo e Barbaresco ha avanzato la proposta di modifica del disciplinare per inserire, tra gli appezzamenti dove sia consentito coltivare nebbiolo da Barolo o da Barbaresco, proprio le posizioni a Nord, che sarebbero più protette dalle alte temperature e dalla siccità delle ultime annate. Una proposta che ha fatto e fa discutere, ma che fotografa bene la situazione climatica in vigna.
Fin qui il quadro che si presenta oggi e che, spesso, dà adito a opinioni diverse e opposte. Tuttavia quello che preme sottolineare non è l’ennesima polarizzazione italica su un tema. Ne abbiamo già viste e ne vediamo già di tutti i colori, ma come, anche in tema di siccità, si arrivi, giustamente, a un clamore mediatico su un’emergenza evidente e per certi versi drammatica, a cui non sembra corrispondere una silente e proficua opera concreta diretta a risolvere un problema che si trascina da anni, anzi da decenni.
Spieghiamo: in queste ultime settimane i media hanno giustamente “scoperto” la siccità nelle vigne piemontesi. Ma la cosa che, a nostro avviso, davvero dovrebbe muovere a una critica severa è che il fenomeno, sia come effetti concreti sulle coltivazioni sia come evidenza mediatica, risale addirittura agli Anni Settanta e, puntualmente, si è ripetuto per decadi fino a giorni nostri senza che fossero prese contromisure efficaci.
Questo stato di cose non è certo una conferma della teoria negazionista dei cambiamenti climatici in atto, semmai ne avvalora la storicità e, di conseguenza, l’immobilismo di molti, dalle filiere agricole alle Istituzioni, dalle associazioni di categoria a quelle dei produttori.
Esagerazioni? Basta verificare sul web gli archivi storici dei quotidiani: dal ‘70 e fino alla fine degli anni 90, quindi per un buon ventennio, i titoli dei servizi giornalistici che si occuparono di siccità sono sorprendentemente e tristemente simili a quelli di questi giorni. Qualche esempio: “Siccità o troppa acqua – il tempo è sfavorevole alla campagna” (1977). “La siccità può rovinare una vendemmia da record” (1981); “La siccità opprime la Padania, vigne in pericolo” (1982); “Emergenza siccità. Frutta e vigne in pericolo” (1990); “Vendemmia, rischio siccità” (1991); “Chiesto stato di calamità per siccità e gelate” (1997); “Siccità, è allarme per l’agricoltura” (1997).
Ma al di là del passato che cosa si sta facendo ora? Parole, per ora. I vignaioli si lamentano. I Consorzi e le associazioni di categoria e di territorio hanno chiesto moratorie bancarie per aiutare i produttori di uva. La politica cerca di mettere ordine stretta da incombenze di gestione dell’esistente, carenza di risorse, resistenze ambientali e locali e, non ultime, scadenze elettorali.
Resta l’urgenza di arrivare a risposte concrete e fattive che ad oggi mancano.
Verrebbe da dire “niente di nuovo sotto il sole” se non sembrasse una battuta di cattivo gusto. Sarebbe dunque ora di smetterla di gridare e stracciarsi le vesti e passare dalle parole ai fatti. Come? Chiedendo alla Politica di programmare ora interventi concreti, a livello regionale, nazionale ed europeo, e ai privati di investire in opere di regimentazione, anti-spreco, governance e riciclo virtuoso di un bene naturale fondamentale per la produzione del vino e che sta diventando sempre più prezioso: l’acqua.
fi.l.
(Qui sotto una galleria di pagine tratte dall’archivio storico del quotidiano La Stampa di Torino. Il ritaglio in apertura è del primo settembre 1991)