Il Vinitaly numero 52 che si terrà a Verona dal 15 al 18 aprile suscita già domande e interrogativi. Soprattutto per quanto riguarda il mondo delle bollicine piemontesi che appare, ci si perdoni la similitudine scontata, in fermentazione. Ecco i tre casi più eclatanti.
l’Asti
È il campione assoluto delle bollicine made in Piemonte. Nelle versioni dolce e secco ha fatto registrare, a fine marzo, segni positivi per quanto riguarda l’imbottigliamento. Con la prospettiva della Pasqua si è andati oltre gli 11 milioni di pezzi con il Secco che ha aggiunto 400 mila bottiglie alle 770 mila vendute nel 2017, in tutto un po’ meno di 1,1. Non male, checché ne dicano i critici, per un vino che è stato presentato al pubblico appena sette mesi fa e che solo da qualche settimana sta uscendo dalle mura della zona di produzione del Sud Piemonte per essere presentato in Italia (iniziative di aziende sono in corso in varie regioni).
Resta da sciogliere il nodo della promozione per l’Asti Dolce classico. Spente le eco della Dolce Valle, la rassegna-fiera che ha unito Asti e Alba in un abbraccio che, però, non ha impedito agli albesi di scegliere Torino per progetti turistico-gastronomici di alto livello, per alcuni la valorizzazione dell’Asti docg dolce è ancora di là da venire. Il Consorzio di Tutela presieduto da Romano Dogliotti annuncia progetti e iniziative e, tuttavia, un dato è certo: le grandi Case spumantiere, nonostante i proclami, continuano a trattare l’Asti dolce come un prodotto solo ed esclusivamente da prezzo, senza minimamente dare l’impressione di percorrere strade alternative che elevino una buona vola l’immagine di un vino che, nel bene e nel male, continua a sostenere un’economia di filiera alla quale anche quelle maison dovrebbero essere grate. Cambierà qualcosa? L’Asti Secco docg, come sostiene qualcuno, trascinerà anche il Dolce o dovrà prima cercare di non essere trattato allo stesso modo del suo “fratello maggiore”.
Poi c’è la questione Moscato d’Asti docg. Ci sarebbe stata una decrescita, ma sembrerebbe un sintomo fisiologico, parlando comunque di un vino che ha segnato performance incredibili che lo hanno portato a 30 milioni di pezzi in massima parte, però, prodotti dai vinificatori, aziende, cioè, che producono per i marchi stranieri che hanno trovato nel MdA un business mica da ridere, soprattutto negli Usa. Il pericolo è che ricadano sul “tappo raso” le stesse problematiche dell’Asti dolce. La situazione è da monitorare.
L’Alta Langa
Sua Maestà vuole forse cambiarsi d’abito, nel senso che potrebbe allargarsi la base ampelografica che serve per fare questo spumante d’eccellenza. L’Alta Langa ora si fa solo con pinot nero e chardonnay. Recentemente abbiamo colto segnali di apertura a vitigni autoctoni come il nebbiolo e il cortese.
La prima ipotesi è stata confermata in qualche modo dal presidente del Consorzio di Tutela, Giulio Bava, che alla “prima” dell’Alta Langa, a Grinzane Cavour, ha accennato a un progetto sull’utilizzo di altre uve. L’imbeccata era arrivata niente meno che dall’assessore regionale all’Agricoltura, Giorgio Ferrero, che aveva auspicato l’ingresso di vitigni autoctoni nel disciplinare di produzione dell’Alta Langa. «Per dare più collegamento di territorio al vino» aveva spiegato. Ora, al netto del fatto che in molti considerano pinot nero e chardonnay vitigni internazionali ormai adottati dal Piemonte e perciò quasi autoctoni, l’assist di Ferrero ci sta. Ci sta, però, meno, se fosse confermata, la voce secondo cui dietro al possibile ingresso del nebbiolo nel disciplinare di produzione dell’Alta Langa ci sarebbe la fortissima e potente lobby dei barolisti. In astinenza da bollicine i produttori del Re dei Vini avrebbero già nel cassetto il progetto di un Langhe Spumante Brut a docg che potrebbe togliere visibilità e mercato all’Alta Langa. L’unione di questi due progetti, ammesso che il Langhe Brut non sia una eno-bufala, eviterebbe una guerra fratricida (e stupida). C’è chi giura che trattative sarebbero in corso. Sarà vero? Del resto non è la prima volta che i barolisti si confrontano con altre realtà vitivinicole. Il caso del Piemonte Nebbiolo diventato Monferrato Nebbiolo resta negli annali.
E come non bastasse ci sono anche quelli del cortese. L’uva a bacca bianca che trova patria d’elezione in quel di Gavi, è in cerca di conferme e pare voglia trovarle in sponda Alta Langa.
Quindi, ricapitolando: sulla Ferrari (oopss, battuta involontaria) biposto Alta Langa ci stanno, comodi, pinot nero e chardonnay, ma ora vorrebbero salire anche nebbiolo e cortese e trasformare la supercar in una berlina di lusso. Ci riusciranno? O si tratta solo di ipotesi campate in aria?
Acqui docg Rosè
È l’ultimo nato tra le bollicine piemontesi. Raccoglie la sfida già lanciata dall’Asti Secco, quella, cioè, di uno spumante non dolce ottenuto da uve aromatiche da cui da sempre si ottengono vini dolci.
In più rilancia con il rosé, la colorazione naturale delle uve brachetto, che, secondo molti analisti di mercato, potrebbe essere un’arma vincente su molti mercati.
Ci crede il Consorzio di Tutela presieduto da Paolo Ricagno che per ora ha catalizzato l’interesse di quattro aziende, Bersano, Bastieri, Tre Secoli e Cuvage. Restano fuori altri nomi importanti, come Banfi e Capetta, che potrebbe muovere volumi significativi. Ma ne avranno voglia o, meglio, accetteranno di estendere la gamma dei loro vini con un brut docg rosè da uve brachetto?
Non è l’unico nodo da sciogliere. C’è anche la questione non da poco della possibilità di imbottigliare l’Acqui docg Rosè fuori dalla zona di produzione tra Acqui e l’Astigiano. Il ministero, ostaggio della politica che ancora non ha formato il nuovo Governo e con il ministro Maurizio Martina che ha dato le dimissioni in favore del suo vice Andrea Olivero, non ha ancora deciso che fare. Quelli del Consorzio fanno pressing convinti che la deroga farebbe volare le vendite l’Acqui docg Rosè e raddrizzerebbe la situazione della filiera che da qualche anno soffre di una crisi strutturale con le rese delle uve ormai scese a meno di 40 quintali per ettaro. Qualcuno, però, sostiene che ci siano aziende venete del Prosecco interessate a imbottigliare l’Acqui docg Rosè. Sarà vero? Chissà, intanto la versione brut del Brachetto spumante si presenterà al Vinitaly di Verona, poi si vedrà.
Filippo Larganà (filippo.largana@libero.it)