Tra poco si tireranno le somme di questo anno 2020 per il quale, a ragione, non si trovano più aggettivi negativi, né eleganti né coloriti.
Il mondo del vino, strategico per il Piemonte e, anche se nessun Governo centrale di qualsiasi colore politico lo ha ancora capito, per l’intero Paese, non ha fatto eccezione.
I presupposti non sono incoraggianti. In generale l’economia nazionale italiana appare ancora sotto scacco. Prima, 2008 e 2010, c’era stata la crisi economica mondiale dagli Usa, poi è arrivata la crisi pandemica sanitaria e quindi anche economica dalla Cina.
L’Italia non ha fatto in tempo a rialzarsi dagli effetti di queste crisi ed ora è letteralmente in ginocchio con molti settori, dal turismo alla ristorazione al commercio, che versano in gravi condizioni e naturalmente c’è da sconfiggere un’emergenza sanitaria terribile con il suo carico drammatico di morti, famiglie sconvolte e disagi sociali sempre più accentuati.
Il vino non è rimasto al riparo da questa bufera. Le chiusure, imposte dalle regole sanitarie, dei luoghi di mescita Horeca (bar, ristoranti, vinerie, hotel) hanno martoriato una parte del settore vitivinicolo, quello presidiato dalle aziende produttrici che hanno sempre operato nell’Horeca.
La reazione, però, c’è stata. Molte Cantine hanno attivato shop sul web, aperto siti di e-commerce, potenziato o avviato le consegne a domicilio e da asporto. Panicelli caldi? Forse, ma almeno ci si è mossi. Il consiglio è quello di aumentare gli investimenti proprio nei canali alternativi, tra Internet e domicilio. Faranno la differenza.
Le aziende di vino che, invece, hanno tenuto botta e, anzi, hanno incrementato le vendite, compatibilmente con un mercato interno non florido e mercati esteri attivi a tratti, sono state quelle che, insieme a web e domicilio, hanno mantenuto o approcciato al meglio la GDO, la grande distribuzione organizzata, i supermercati, insomma, con la galassia di iper, hard e coop che, grazie alle disposizioni di legge, sono rimasti aperti e hanno moltiplicato incassi e fatturati.
C’è da riflettere perché, fino a qualche anno fa, almeno in Italia, la GDO era considerata, da una certa parte di produttori vinicoli, di operatori della comunicazione e di giornalisti, come una sorta di luogo di perdizione con cui le grandi eno-griffe non avevano a che fare. Un luogo deputato, sempre nell’immaginario di qualcuno, a ospitare prodotti di medio livello, certo non di altissimo pregio.
Da anni non è più così. Ci sono catene di GDO che propongono “isole” vinicole con marchi di assoluto pregio, non solo etichette italiane, ma anche straniere, Champagne in primis (e non solo quelli di prima fascia) e questo avrebbe dovuto far suonare una campanella nella testa di molti.
Non è l’unica riflessione da fare in tema vino piemontese in attesa dei numeri di fine anno, che forse arriveranno nei primi giorni di gennaio.
Ad esempio, in tema di bollicine, i mercati esteri, sembrano avere premiato quelle Made in Piemonte. L’Asti Spumante, il più brindato e celebrato degli spumanti dolci che offre anche tipologie a basso contenuto zuccherino – alle quali bisognerebbe dare più tempo per accreditarsi, ma questa è un’altra storia -, che in Patria soffre a causa della crisi e della spietata concorrenza (in qualche caso anche da “fuoco amico”), fuori dall’Italia spopola, anche in tempo di virus.
Per rendersene conto basta leggere analisi e tabelle (qui) con comparazioni interessanti tra l’Asti e altri spumanti italiani.
In conclusione: a poco servono mugugni, lamentele, invettive, polemiche (fini a sé stesse) e perfino certe liti di cortile che trovano terreno fertile sui social.
Quello che serve davvero è un nuovo modo di concepire racconto, comunicazione e commercializzazione del vino. Aumentare i canali di vendita, potenziare la comunicazione, sia pubblicitaria sia istituzionale, su tutti i mercati (magari di più su quelli in sofferenza, altrimenti lì si sparisce del tutto), raccontare nel modo corretto il territorio non clonabile dei vini piemontesi (ricordando sempre che è stato il primo in Italia a diventare Patrimonio Unesco), abbinare la cultura, l’arte, l’accoglienza, il turismo, il paesaggio e l’ambiente alla mera vendita commerciale, devono essere le armi vincenti per il vino piemontese che sembra avere dimenticato di essere ai vertici nel mondo, se non per tutti gli italiani almeno per molti stranieri che, nonostante noi, guardano al Belpaese come un simbolo di cultura, arte, conoscenza, conoscenza, paesaggio, ambiente.
Il Barolo e i suoi fratelli, l’Asti e il Moscato d’Asti, la Barbera d’Asti e la sua “corte” principesca, i Nebbioli, il Brachetto d’Acqui e la sua estensione Acqui Rosé, il Gavi e i grandi vitigni bianchi dal Cortese al Timorasso, le piccole grandi “chicche” enologiche dal Grignolino alla Freisa, dal Ruché al Dolcetto (in tutte le sue, forse fin troppe, sfaccettature), senza dimenticare l’universo parallelo al vino, fatto da grandi e storici Vermouth, vini passiti, grappe e distillati, ebbene tutta questa favolosa galassia che non ha pari in Italia e nel mondo merita attenzione e unione, da parte delle filiere a cominciare dai vignaioli che devono smetterla di considerare le vigne come una sorta di reddito di cittadinanza come se dall’uva no dipendesse il futuro del vino; dei Consorzi di Tutela che devono strutturarsi una buona volta come moderni punti di riferimento non solo legislativo e di tutela, ma di comunicazione e di valorizzazione delle denominazioni e dei paesaggi e culture ad esse legati, delle associazioni di categoria e di produttori che insieme alla vocazione sindacale pratichino anche la programmazione di azioni future, dalle istituzioni, pubbliche e private, che escano dalla politica annunciataria e diano prospettive concrete e sicure, una buona volta.
Perché non è solo questione di soldi, di fatturato, di mercati e di bilancio di fine anno. È questione del futuro di una società che ci è stata data in custodia da chi l’ha custodita prima di noi e che noi dobbiamo consegnare splendida e pronta a nuove sfide a chi verrà dopo di noi.
Altrimenti avremo fallito, non solo secondo il ruolo che abbiamo nella società, che sia manager o giornalista, vignaiolo o operaio, professionista o politico, avremo fallito anche come comunità umana e persino come civiltà. E questo non possiamo permettercelo.
Buona fine e buon principio a tutti, sempre rispettando le disposizioni sanitarie.
per la redazione di Sapori del Piemonte
Filippo Larganà
Vittorio Ubertone