La Storia. Ecco i vini chiamati Alba che con Alba non hanno niente a che fare. È il tarocco che avanza?

inserito il 3 Maggio 2010

Si chiama Alba, è un vino che promette molto, ma che con la capitale delle Langhe, patria del tartufo, del Barolo e della Nutella, non ha proprio nulla a che fare. Infatti lo producono in Istria, che, come sappiamo, non è più territorio italiano dal 1947.

L’azienda è la Matosevic, che, secondo quanto si evince dal sito http://matosevic.com, dovrebbe avere base a Pula (Pola). In listino ci sono 8 vini tra cui, per l’appunto, Alba, un bianco secco in due versioni: Alba e Alba Bq (vuol dire barrique?).

Sul mercato italiano il vino è proposto da un’azienda che collabora con l’impresa straniera. Ecco il testo della proposta di vendita inviata via mail e che è arrivata anche a noi di Sdp: «NOVITA’ PER L’ITALIA: ALBA 2008. Prodotto da IVICA MATOSEVIC. Malvasia Istriana dei Colli Occidentali dell’Istria. Vino Bianco secco di qualità ed origine geografica controllata. Il vitigno di cui trattasi è di una varietà che non esiste in nessuna altra parte e cresce soltanto in Istria di cui rappresenta il vino simbolo. Esci dalla massa ed offri un vino originale con un sapore equilibrato ed eccellente, pieno, vivace, squisito e potente al tempo stesso. Ottimo con abbinamento di pesce e carni».

Dunque un vino un bianco e non un rosso, il vitigno è un malvasia istriano e non internazionale o, peggio, un clone di nebbiolo o barbera. Curioso l’abbinamento generico con carni e pesci.

Comunque il riferimento alla città di Alba, come alla parola con cui in italiano si indica il sorgere del sole, è evidente. Trattandosi di una ditta vinicola, tuttavia, siamo portati a sospettare che il nome Alba, messo in bella evidenza sulla bottiglia, si riferisca più alla città cuneese, centro vinicolo d’eccellenza, che non al momento mattutino.

Dello stesso avviso devono essere stati quelli del Consorzio di tutela di Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Roero, tanto che il presidente Pietro Ratti e il direttore, Andrea Ferrero, contatti da Sdp, hanno confermato interessamento e l’avvio di indagini.

«Per ora – spiegano Ratti e Ferrero – vogliamo capire come e perché quel produttore commercializzi un vino con il nome Alba. Se poi sarà verificato un uso illecito della denominazione Alba, che ora è anche una doc, interesseremo del caso il nostro ufficio legale per verificare se e come sia lecita una tutela del nome Alba».

Ma il vino Istriano non è l’unico prodotto che sembra sfruttare l’”italian sound”, cioè quel fenomeno commerciale che usa fama e successo di blasonati prodotti agroalimentari italiani, per fare business in campo enologico.

Gli albesi sono in allarme anche per l’Albarolo, vino che strizza l’occhio ad Alba e Barolo.

«Siamo in trattative con l’azienda messicana che lo produce – spiega Ferrero -. Vogliamo che la commercializzazione con quel nome sia interrotta. Ma le cose vanno per le lunghe e questa azione legale ci sta dissanguando. Ogni lettera, infatti, ci costa duemila euro, una cifra enorme per le nostre risorse, tanto che stiamo valutando la proposta, per la verità un po’ assurda, della controparte che ha avuto perfino l’ardire di chiederci trentamila dollari per interrompere la produzione di Albarolo».

Una richiesta che anche se magari non lo è, somiglia tanto a un ricatto.

«Però la stiamo valutando anche perché siamo stufi di pagare spese legali» ammette il direttore consortile al quale Sdp ha segnalato un’altra curiosità, un vino rosè chiamato Alba Rosa che è venduto da una cooperativa di vignerons corsi. Ne abbiamo trovato traccia qui.

Del resto lo sfruttamento indebito dell’italian sound in tema di food è pratica assodata..

Casi eclatanti sono il Parmesan tedesco e il Regianito sudamericano contrapposti al Parmigiano Reggiano; e il Cambozola tedesco clone del Gorgonzola.

Gli Stati Uniti d’America sono un mercato fiorente per l’italian sound della tavola. C’è chi fa la mozzarella, come http://www.mozzco.com/, e chi, come http://www.sartorifoods.com/ vende formaggi simili a Gorgonzola e Parmigiano reggiano che, beffa nella beffa, nel 2009 è stato pure premiato come migliore formaggio americano.

C’è poi, a nostro parere, lo scandalo dei vini made in Usa. In California fanno tranquillamente uno spumante brut che chiamano Champagne, senza che i nostri cugini d’Oltralpe, che hanno rotto le scatole su un’inezia come il metodo champenois facendocelo cambiare in “classico”, abbiamo aperto bocca.

C’è poi la caduta di stile dei Gallo, quelli della winery più attiva e potente d’america e (forse) del mondo.

Nel 1990, con una agguerrita azione legale, riuscirono a far cambiare nome al Consorzio di tutela del Chianti Gallo Nero in Consorzio tutela Chianti Classico.

Lo stesso fecero nei confronti di altre due cantine condotte da omonimi che per presentarsi sui mercati internazionali furono costrette a cambiare nome.

Evidentemente gli affaristi yenkees anche quando sono d’origine italiana, anche quando si occupano di food business, non amano troppi galli nel pollaio. E sono avvantaggiati dal fatto che l’Unione Europea, sempre evanescente in tema di unionismo, resta supina e tiepida a qualsiasi tipo di sopruso commerciale che viene da potentati commerciali riconosciuti come quello Usa, attirata da possibili affari che, alla fine, si risolvono sempre in favore delle tasche degli imprenditori europei e quasi mai in aiuto della zoppicante economia Ue.

Filippo Larganà (info@saporidelpiemonte.it)

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