Poca voglia di mediare, molta di fare sentire la propria voce per comunicare un malessere che cova sotto la cenere e, almeno all’apparenza, ha voglia di esplodere. La riunione di ieri sera (18 febbraio) a Santo Stefano Belbo di sicuro è stata molto partecipata da parte dei vignaioli del moscato. Al Centro Sociale “Gallo” c’erano centinaia di coltivatori, qualcuno assicura circa 300.
Relatori dell’incontro, organizzato d’intesa con il Consorzio di Tutela, il sindaco di Santo Stefano, Luigi Icardi; Romano Dogliotti, produttore e presidente del Consorzio; Flavio Scagliola e Stefano Ricagno, vice presidenti consortili di parte agricola con Filippo Molinari, vignaiolo e consigliere consortile di parte agricola.
Molti gli argomenti che sono stati trattati: la resa e il prezzo delle uve, gli investimenti per la promozione, i rapporti con le Case spumantiere. I temi che, però, hanno tenuto banco sono stai soprattutto i dati di vendita della denominazione e il ruolo del Consorzio.
Per quanto riguarda i numeri il mercato non sorride all’Asti docg. Secondo i numeri presentati, riferiti alle sole maison consorziate, l’Asti docg nel 2018 è stato venduto in 50,8 milioni di bottiglie, erano 51,6 nel 2017. La perdita è stata di poco più di 800 mila bottiglie pari a l’1,6%.
Ragionando in macro aree in Europa l’Asti docg ha perso 1,9 milioni di bottiglie; nelle Americhe ha sostanzialmente tenuto perdendo poco più di 290 mila bottiglie. Segno positivo per la Russia dove, nonostante i rapporti diplomatici burrascosi con la Ue, l’Asti docg ha venduto 10,3 milioni di bottiglie contro i poco meno di 9 del 2017 per un incremento che è del 16,1%. Positiva anche l’Asia con un aumento del 2,8% e complessivi più di 2,6 milioni di bottiglie vendute. Seguono, con segni meno, Oceania e Africa con volumi che oscillano tra il milione e le poche decine di migliaia di bottiglie.
La musica cambia, per fortuna in meglio, per il Moscato d’Asti docg.
Nel 2018 le aziende consorziate all’ente di piazza Roma ne hanno venduto quasi 26,8 milioni di bottiglie contro i 25,8 del 2017 con un aumento del 3,7%. Il mercato di riferimento del cosiddetto “tappo raso” è quello degli Usa con circa 17,5 milioni, +1,6% rispetto al 2017. C’è da dire, come hanno precisato i rappresentanti di parte agricola del Consorzio, che negli Stati Uniti oltre il 60% delle bottiglie di Moscato d’Asti sono commercializzate con etichette proprie degli importatori americani. Un fato questo che espone i produttori italiani a rischi relativi sia al prezzo del prodotto sia alla detenzione delle quote di quel mercato. Una bella gatta da pelare qualora la “moscatomania” nei confronti del “tappo raso” piemontese dovesse venire meno.
In europa il Moscato d’Asti docg ha spazio soprattutto in Italia con tre milioni di bottiglie, +14& rispetto all’anno prima. Nel resto d’Europa se ne vendono più o meno altrettanto, in totale le vendite sono circa 6,4 milioni di bottiglie, +4,3%. Anche in Asia conoscono il “tappo raso”, se ne vendono 2,3 milioni, +21% rispetto all’1,9 milioni del 2017. Seguono Africa e Oceania con volumi ridotti che non passano le poche decine di migliaia di pezzi.
Per quanto riguarda l’Asti Secco docg, come abbiamo avuto modo di scrive in altra parte di questo blog, i tempi a nostro avviso non sono ancora sufficienti a determinarne il successo o l’insuccesso. Si parla di volumi attorno ai 3 milioni di bottiglie per un prodotto lanciato poco più di un anno fa. Abbiamo, tuttavia, raccolto voci di insoddisfazione sia da parte dei vignaioli sia da qualche Casa spumantiera. Si vorrebbe più pubblicità istituzionale in appoggio alle strategie già messe in atto da alcuni marchi. Su tutto pesa il non coinvolgimento dei Grandi Gruppi che ancora non si sono buttati nella mischia dell’Asti Secco. I rumors parlano della necessità di un cambio di passo, forse di nome, sicuramente di un Asti sempre meno dry e più brut con residui zuccherini ridottissimi. In questo senso sembrano andare le modifiche al disciplinare che sono state annunciate e confermate nella serata di Santo Stefano Belbo.
Dunque è l’Asti docg dolce a soffrire. «Mentre sui mercati gli altri spumanti dolci aumentano le vendite l’Asti docg dolce perde. È un dato su cui dobbiamo riflettere» hanno detto in coro i relatori.
Giovanni Bosco, assicuratore santostefanese, presidente del Ctm, il movimento culturale che si inspira al mondo del Moscato nato dall’esperienza dei Cobas moscatisti degli Anni Novanta, ha dato la sua ricetta: «L’Asti non ha futuro. Bisogna puntare sul Moscato e ampliare la gamma dei prodotti, dalle menzioni comunali al Moscato spumante».
Per l’enologo scrittore Lorenzo Tablino, voce e penna del Moscato, non c’è dubbio: «La filiera è divisa da sempre perché gli interessi dell’Industria non possono coincidere con quelli dei vignaioli. Però ci vuole un punto di contatto nell’interesse supremo della denominazione».
Dalla platea è venuta una ridda di voci. Chi ha richiamato alla calma e all’unità magari varando esperienze di produzione dal basso anche di Asti docg, chi ha chiesto di unirsi in una protesta forte, chi ha criticato apertamente il ruolo giudicato debole del Consorzio che non presterebbe attenzione ai rappresentanti della parte agricola. «Spesso dalle aziende industriali, che hanno la maggioranza nel Cda consortile, arrivano solo “no” e divieti alle nostre rivendicazioni» hanno detto Scagliola e Ricagno.
Una posizione condivisa anche dal presidente-vignaiolo, Romano Scagliola, «In questa situazione non è facile portare avanti certe istanze di parte agricola» ha detto.
Filippo Molinari ha chiesto alla platea di esprimersi sulla possibilità di sbloccare la riserva di 5 quintali per ettari (blocage/deblocage) in vista di richieste dal mercato. Per alzata di mano in molti hanno detto no. «Non ci conviene. Se ne avvantaggerebbe solo l’Industria» hanno spiegato i vignaioli.
Infine è emersa anche l’ipotesi di una protesta forte per far sentire la propria voce ai vertici consortili e ai manager delle Case spumantiere. «Invito tutti a venire il 4 marzo ad Isola d’Asti, davanti alla sede del Consorzio di Tutela. Porteremo lì le nostre idee e le nostre richieste» ha detto Filippo Molinari.
Benzina sul fuoco l’intervento di Mario Sandri, vignaiolo dell’Albese, che ha presentato un suo studio sui costi di gestione di un ettaro di uva moscato: «Detratti il lavoro e le spese, i 9.222 euro ottenuti con le rese e il prezzo 2018, 85 quintali per ettaro e 108,5 euro a quintale, diminuiscono fino a diventare una perdita negativa di -1.172 euro/ettaro. Non si può andare avanti così».
Altra fiammata agli animi già accesi dei vignaioli è arrivata da Bosco che ha proposto di chiedere che ogni bottiglia etichettata Moscato senza denominazione riporti zona o Paese d’origine dell’uva o del mosto, e anche da chi si è chiesto se esista una norma europea che vieti la vendita di prodotti alimentari sottocosto da eventualmente applicare in caso di bottiglie della denominazione Asti docg vendute a prezzi troppo bassi.
Dopo questi interventi rumori crescenti sono venuti dalla platea, tanto che qualche osservatore è arrivato a sostenere che per la parte agricola l’assemblea di Santo Stefano Belbo potrebbe rappresentare quella prima scintilla di reale consapevolezza da tempo attesa. Chissà.
Di certo sui social non sono mancati i commenti all’incontro. C’è chi ha ipotizzato l’uscita in massa dal Consorzio insieme alle Cooperative e chi, per la prossima vendemmia, la raccolta e consegna solo della quota di uva docg, lasciando sulle viti il supero doc e non doc per togliere ossigeno e materia prima per quegli spumantelli che, di fatto, fanno concorrenza interna all’Asti facendo guadagnare bene solo le Industrie.
Ma per fare questo ci vorrebbe quell’unità che fino ad ora la parte agricola non ha mai veramente avuto e dimostrato nei fatti.
Tra le voci di protesta c’è stato anche chi ha evocato i pastori sardi che in questi giorni sono al centro di manifestazioni eclatanti e drammatiche con lo sversamento del latte caprino appena munto sulla strada per strappare prezzi decenti al litro. Quello che, però, balza subito agli occhi è la diversità di “tenuta” dei due comparti. È evidente che i vignaioli del moscato non sono ancora al punto limite di rottura, ma se le cose non cambieranno lo saranno a breve.
Per questo c’è da auspicare che si trovi spazio di mediazione, da una parte e dall’altra. In caso contrario la rottura di quel “patto tra gentiluomini” tanto strombazzato in questi decenni di “pax moscati” varrebbe meno di una promessa elettorale.
In chiusura da citare l’intervento del sindaco Icardi che ha ricordato come da un recente studio risulti un aumento degli ettari vitati a moscato e, di contro, c’è una consistente diminuzione degli ettari dei cosiddetti “sorì”, i vigneti eroici su pendenze di rilievo che hanno determinato la nascita del mondo del moscato. «Stiamo perdendo la nostra storia e il nostro territorio, non solo soldi e reddito – ha detto Icardi -. Il prezzo che pagheremo e che paghiamo – ha aggiunto – non è solo in termini di singole aziende agricole, ma di collettività che dovrà farsi carico di un paesaggio che, senza i “sorì”, diventa sempre più fragile e instabile, sia dal punto di vista idrogeologico sia dal punto di vista sociale».
Un appello che, come gli altri, non va sottovalutato.
Filippo Larganà (filippo.largana@libero.it)