Doveva essere il 25 e invece sarà il 31 («la data non dovrebbe più cambiare» dicono i responsabili) la tanto attesa apertura di Eataly New York, ultima creatura del guru del gusto-business Oscar Farinetti.
E insomma la questione non è di poco conto, sia per gli affari dell’omino coi baffi, come lo chiamano con malcelata invidia detrattori e aspri critici, sia per un comparto, come quello dell’enogastronomia made in Piemonte (e in Italy) che, nonostante gli strombazzamenti dei soliti tromboni, non sta attraversando un momento felice.
Ora, per avere notizie sul colosso delle leccornie tricolori che aprirà nella Grande Mela vi rimandiamo ai siti farinettiani http://www.eataly.it/ e http://www.newyork.eataly.it/.
Qui, invece, segnaliamo come da una parte ci siano imprenditori che fanno affari con le eccellenze italiane del gusto, e dall’altra stia deflagrando la crisi drammatica dei campi con coltivazioni e produzioni alimentari che vengono deprezzate e non forniscono più reddito sufficiente .
Ne hanno parlato, in questi giorni, alcuni quotidiani con titoli sparati e dossier sulla falsariga scoopistica degi Anni Settanta.
La realtà, purtroppo, è che la crisi dell’agricultura italiana ha radici più antiche e profonde.
Risiedono nella miopia di una classe dirigente che per decenni ha corteggiato e favorito i grandi gruppi industriali, i primi che agli accenni di crisi hanno svenduto o delocalizzato fabbriche creando disoccupazione e povertà.
I casi Olivetti, ieri, e Fiat, oggi (ancora non si capisce se tenercela è un bene o un male) sono esplicativi dell’andazzo.
Poi c’è stato l’innamoramento verso i finanzieri disinvolti, i prestigiatori della finanza, veri razziatori di poveri cristi, pronti a fare carte false (nel vero senso dela parola) per fare soldi con il nulla. I casi Cirio, Parlamat, tanto per restare nel settore food, lo testimoniano.
In tutto questo bailamme, questo vorticoso giro di miliardi di euro, favori dati e ricevuti, battaglie politiche fatte ad hoc, inchieste della magistratura e Governi di destra e sinistra, chi ci ha davvero perso è stato il settore agricolo.
Tutte le risorse rurali del Belpaese sembrano essere arrivate al capolinea. Grano, riso, verdure, frutta, latte, carne non forniscono più reddito sufficiente per vivere.
I campi sono a rischio desertificazione. I vecchi contadini sono al tramonto e i giovani non sono invogliati a restare. E dall’estero, senza che nessuno alzi un dito, in testa Unione Europea e Governo Italiano, arrivano prodotti di scarsissima qualità, con costi di produzione infinitamente più bassi, che fanno concorrenza spietata alle eccellenze italiane.
Domanda: in un periodo di recessione e scarsità di soldi il consumatore medio compera una scatola di pomodori italiani, buonissimi e certificati a un euro o quelli stranieri a 40 centesimi? La risposta è scontata. Poi, come non bastasse, c’è chi mischia prodotti italiani a quelli stranieri. leggete qui.
Vogliamo parlare di quote latte, di grano e riso a prezzo di saldo, del mais ogm, di arance distrutte, di uve pregiate pagate 500 volte di meno del vino che producono.
E l’Italia che fa? Cincischia, traccheggia, perde tempo, s’impantana in bizantinismi inutili.
Nel frattempo l’Europa dà una mano a distruggere le ultime difese rurali del Vecchio Continente in nome di una reciprocità che esiste solo nella testa deglli euroburocrati e dei pagatissimi politici italiani di stanza a Bruxelles.
Insomma per dirla con lo scrittore britannico Robert Shaw, la situazione è drammatica ma non seria.
Che fare? Oscar Farinetti, dall’alto del suo impero del gusto che a breve, come aveva fatto Cristoforo Colombo, conquisterà anche il Nuovo Mondo, consiglia che ogni contadino diventi imprenditore di sé stesso, che si vada all’associazionismo per attivare strategie di marketing, puntare più sulla qualità che sulla quantità, fare percepire agi stranieri che i prodotti italiani sono meglio di quelli prodotti, spesso, da loro connazionali.
Ha ragione, naturalmente, ma Farinetti dice anche che la situazione si potrà ribaltare solo tra anni.
Bisogna vedere se vignaioli piemontesi, pastori sardi, allevatori veneti, ortolani napoletani, saranno in grado di resistere fino alla svolta. Perchè nei campi la cassa integrazione non c’è
Filippo Larganà (filippo.largana@libero.it)