A dieci anni dall’attacco terroristico agli Usa i quotidiani italiani sono pieni di commemorazioni dell’11 settembre 2001. Ma c’è poco di come l’evento abbia cambiato i consumi e i mercati vino del made in Italy. Noi di Sdp, come tutti, non possiamo dimenticare cosa abbia rappresentato per l’America e il mondo quell’attacco e quanto si sia portato dietro, in termini di vittime e di conflitti anche ben dopo gli aerei lanciati contro il Wtc e non solo sul suolo Usa.
Tuttavia, nel rispetto dello scopo di questo sito/blog, che è quello di indagare e informare nella maniera più corretta e completa possibile sulle eccellenze agroalimentari piemontesi, si è deciso di ricordare l’11 Settembre e tutto quello che è seguito, attarverso la voce di tre operatori che esportano vino piemontese negli States.
A loro abbiamo chiesto dove erano il giorno dell’attacco all’America, ma anche cosa sia cambiato nel mercato statunitense dopo la tragedia dell’11 settembre.
Ecco le loro testimonianza di manager – fuori da statistiche e diagrammi che, come hanno dimostrato le recenti crisi finanziarie, lasciano sempre il tempo che trovano – insieme ad analisi e prospettive raccolte sul campo.
Stefano Pilone
«Del giorno dell’attacco, la mattina dell’11 settembre 2001, ricordo la telefonata, dal mio ufficio a Canelli nell’Astigiano, con una mia cliente americana, di New York. Mi raccontò in diretta l’attacco alle torri del Wtc e tutto quello che accadeva attorno. Minuti che non si possono dimenticare.
In quel momento, con quello che stava accadendo, il business era l’ultimo pensiero. E da questo punto di vista devo dire che la reazione dei clienti americani fu di reazione fortissima a quello che era accaduto. Nessuna commessa annullata, nessun ordine cancellato. Sembra, ed era così, che per l’America degli affari e del commercio, ma anche della gente comune, la parola d’ordine fosse: “ehi, noi siamo gli Stati Uniti d’America, siamo la più grande democrazia dell’occidente, la prima superpotenza militare ed economica. Non ci faremo intimidire”. E fu così. Per mesi, almeno fino alla primavera del 2002, il mercato del vino non scossoni. Poi, però, tutto cambiò.
Cominciarono a farsi sentire gli effetti di una crisi economica pesante. Gradatamente i consumatori americani di vino abbassarono la loro capacità di acquisto. I vini costosi restarono sugli scaffali, aumentarono le vendite di quelli di fascia media. Un colpo per i francesi, di solito posizionati su prezzi medio alti, e per i vini italiani costosi; un’opportunità per le tante tipologie di vini italiani e non, con costi medi attorno ai 30/35 dollari sullo scaffale.
Poi arrivò il nostro vero “11 settembre”: la crisi economica del 2008 con l’esplosione della bolla dei mutui subprime (concessi senza adeguate garanzie a chi voleva acquistare una casa e poi non era in grado di pagare ndr). I consumi medi di vino, in termini di acquisto, si orientarono nuovamente verso il basso. In questa situazione i vini italiani si dovettero deguare. Ci furono stati tagli di prezzo e riposizionamenti che favorirono, e favoriscono ancora, buoni affari. Ma rimasero – e rimangono – le sofferenze per i vini costosi.
Per aree geografiche oggi vanno bene Triveneto e Toscana, meno bene il Piemonte che sconta una troppo accentuata parcellizzazione delle aziende che stentano a fare volumi interessanti per la grandi catene.
Per quanto riguarda i vini del Piemonte segnalo la super performance del Moscato che vive di luce propria, trascinato da una moda che, per ora, non accenna a diminuire dovuta anche al buon rapporto qualità prezzo. Il Moscato d’Asti ha caratteristiche di aroma e gusto che sono, al momento, insuperabili.
So, però, che grandi aziende Usa hanno piantato migliaia di ettari di moscato e dopo aver sperimentato il mercato con moscati secchi e quasi senza bollicine, oggi si sono attrezzate per produrre un prodotto simile al Moscato d’Asti. deve essere un campanello d’allarme per i produttori piemontesi di questo vino.
Le mie ipotesi sul futuro del vino italiano e piemontese? Vedo bene i rossi aromatici, a patto che abbiano prezzi non elevati»
Roberto Robba
«Dove ero l’11 settembre 2001? Per fortuna nel mio ufficio a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo. Concordo con chi dice che gli effetti di quello che tutti vedemmo in tv non fu immediato. Nulla, o quasi, fino al vero 11 settembre del vino, cioè il 2008 e la deflagrazione delle speculazioni finanziarie dei mutui subprime e il conseguente fallimento della Lehman Brothers, una delle più grandi e accreditate società finanziarie americane, insieme a molte banche. Ecco, a mio avviso, quello determinò la crisi più forte sui consumi del vino italiano ed europeo. Diventò difficile vendere le bottiglie nella fascia di prezzo alta e aumentarono le vendite di quelle con prezzi medi, più abbordabili, anche psicologicamente, da parte dei clienti americani. In questo senso, nei dieci anni che ci separano dall’attacco terroristico agli usa, si è innescata una corsa al ribasso dei prezzi che le aziende fanno fatica a contenere e affrontare. Ci sarebbe bisogno di normative nuove di sfruttare al meglio le denominazioni piemontesi. Invece sembra che in Piemonte si faccia di tutto per rallentare il potere di competizione delle aziende, senza dare loro, a mio avviso, gli strumenti necessari per aggredire al meglio i mercati stranieri.
Per quanto riguarda il Moscato piemontese è vero che sta vendendo bene, meglio di tanti altri vini, negli Usa, tuttavia a mio avviso bisogna restare vigili. Confermo che, sull’onda di questo successo, migliaia di ettari di vitigno moscato sono stati piantati in California, ma anche in Sud America e Australia. Verranno da lì i competitor più pericolosi, sia in termini di prezzi che di qualità.
Prospettive future per il vino piemontese negli Usa? Ottime, a patto che si sappiano cogliere tutte le occasioni al volo e non perdere tempo con inutili diatribe di bottega.
Beppe Filipetti
Beppe Filipetti è un wine-trader di lungo corso. L’11 settembre 2001 era al 35° piano del suo condominio newyorkese. Stava preparandosi a fare colazione con un ospite, Paolo Coppo, produttore vinicolo di Canelli che quella mattina avrebbe dovuto essere alle Torri Gemelle per incontrare un cliente e invece era in ritardo. Furono sorpresi dal rumore sordo del primo aereo che centrava il grattacielo, qualche minuto più tardi l’altro apparecchio tagliava in due la seconda torre, davanti alle telecamere. Filipetti e Coppo, che furono raggiunti anche da un altro businessman canellese che si trovava a Ny, Gianni Ghione, restarono bloccati sul terrazzo, impietriti dall’orrore di quello che stava accadendo e dalla paralisi che attanagliò New York e tutta l’America per alcuni giorni. Delle ripercussioni sul mercato del vino italiano e piemontese Filipetti fornisce la sua personale analisi.
«Secondo me – dice – tutto cominciò ben prima dell’11 settembre 2001. L’economia statunitense ha cominciato a zoppicare all’inizio del Terzo Millennio, quando sono emerse tutte le contraddizioni di un’economia falsata da troppi miti inesistenti, dal rampantismo a tutti i costi, da modelli che esistevano solo sulla carta e avevano nulla a che fare con la vita reale. Crollato questo castello di carta anche i consumi si sono ridimensionati. È automatico. Così chi era ricchissimo e con la crisi ha continuato ad arricchirsi non ha avuto problemi, ha continuato tranquillamente ad acquistare casse di Chateaux e Champagne, Brunello e Barolo. Ma chi aveva conquistato, con la finanza finta, una fetta di paradiso è poi ha dovuto fare i conti con la crisi, beh questi hanno dovuto darsi una regolata: niente più acquisti costosi e crolli dei consumi di vini pregiati. I produttori italiani hanno sfruttato questa opportunità, e lo stanno ancora facendo. dapprima hanno tentato di tenere botta, mantenendo, per le tipologie più pregiate, i prezzi. Alla fine però anche il barolo ha dovuto ridimensionarsi. Le leggi di mercato non ammettono sgarri. Oggi, a dieci anni da quella drammatica mattina dell’11 settembre 2001, i vini italiani sono molto apprezzati in Usa, a patto che abbiano, non prezzi stracciati come qualche produttore erroneamente crede, ma un giusto rapporto qualità prezzo. Quanto alla “moscatomania” è senza dubbio una buona cosa per il Piemonte, tuttavia consiglierei ai produttori di attendersi una forte concorrenza da altre aree vinicole americane e non. Il Moscato d’Asti ha dalla sua qualità organolettiche uniche e che sono molto gradite dagli americani: la dolcezza, il basso grado alcolico, le bollicine, ma bisogna stare attenti alla questione prezzo, deve restare agganciato ad una ottima qualità dl prodotto. Non esiste negli Usa svendere un prodotto di scarsa qualità, i consumatori non sono degli stupidi. Ai produttori piemontesi consiglio quindi di produrre ottimi vini, come stanno facendo, mantenendo prezzi competitivi senza scontare troppo o, al contrario, alzarli in modo esagerato. In entrambi i casi il rischio è perdere terreno e mercati. Quale prodotto potrebbe andare bene negli Usa? Beh io vedo bene un trend in crescita sui vini rosati, magari da vitigno nebbiolo»
Filippo Larganà (filippo.largana@libero.it)
grazie…
bellissimo e esaustivo articolo complimenti.