Le ultime due associazioni di produttori vitivinicoli piemontesi hanno nomi che somigliano a liste elettorali. Sono: Noi di Costigliole d’Asti, associazione di produttori di Barbera d’Asti docg che fa capo al Comune astigiano; e PiùFreisa, che riconduce ai produttori del vino Fresia doc, tipologia coltivata e prodotta tra il Nord Astigiano e le prime propaggini del Torinese.
Il gruppo costigliolese è strutturato con un sito internet (qui) e pagine social che danno conto non solo dell’associazione e delle sue attività, ma anche del territorio e delle sue attrazioni paesaggistiche e storico-culturali. Logicamente il filo rosso è la rossa Barbera d’Asti.
PiùFreisa è rintracciabile su pagine social (@PiuFreisa) che presentano il gruppo e chi ne fa parte.
Prima dei barberisti costigliolesi e del freisani astigiano-torinesi nel mondo del vino piemontese si erano formati altri gruppi di produttori e per svariati motivi e scopi.
Nelle Langhe barolisti e produttori di Barbaresco hanno fondato gruppi e accademie, ma ci sono quelli della Nascetta (il nuovo bianco che vuole emergere come vino new entry langarolo, vedi qui). Gruppi, associazioni e consorzi, con scopi commerciali e promozionali.
Per quanto riguarda il Moscato bianco, il più democratico tra i vitigni remunerativi piemontesi, da cui nascono l’Asti e il Moscato d’Asti docg, il gruppo di produttori e vignaioli storico è Assomoscato, associazione di produttori di Moscato d’Asti (qui) per per molti anni ha raggruppato coltivatori di uve e produttori di vino. Altra associazione di moscatisti è quella del Moscato Canelli (qui) la cui missione è quello di promuovere la sottozona (chiamiamola soprazona una volta buona!) omonima, di fatto un “cru” del Moscato d’Asti che aspira a diventare una distinta denominazione privilegiando il nome del luogo rispetto a quello del vitigno.
È, questa, una tesi sostenuta da tempo dall’associazione di produttori vitivinicoli “il Nizza” (qui) che, partita prima dei moscatisti canellesi, è riuscita a far diventare il proprio vino, a base di uve barbera e che per anni è stato una pregiatissima selezione della Barbera d’Asti docg, una docg a sé stante a tutti gli effetti con in primo ed esclusivo piano il nome Nizza.
Del resto il Canelli vorrebbe fare lo stesso.
Poi ci sono i gruppi di produttori del Ruché (qui) o quelli del “super” Grignolino Monferace (qui) e quelli di Aroma di un Territorio (la pagina social qui), gruppo di giovani moscatisti che con il marchio Escamotage promuovo un vino secco ottenuto dai loro Moscati d’Asti docg.
E potremmo continuare, perché oltre a questi gruppi, associazioni, club, accademie, ci sono gli enti istituzionali (consorzi in prima fila), pubblici, privati, ibridi o di categoria.
Dunque si è sempre sbagliato nel considerare il Piemonte del vino un luogo di isolazionisti e individualisti a oltranza? Era errata la sensazione che, a differenza di altre aree vitivinicole italiane e al di là delle dichiarazioni a favore di taccuino, quella piemontese non riesca, sotto sotto, a “fare squadra” per dirla con un concetto consunto e abusato?
Guardando alla voglia di “assembramento” sembra di sì, si sbagliava, tuttavia, almeno in parte, “ballare da soli” o al massimo in compagnia ristretta resta una tentazione, almeno a giudicare da alcune dichiarazioni, vecchie e nuove, di produttori che affermano alternativamente l’intenzione di fondare nuovi gruppi o consorzi oppure, all’esatto contrario, di volere restare all’interno di associazioni ed enti più allargati.
Tutto questo, al di là della situazione oltremodo articolata, induce a una riflessione: se, infatti, da una parte è certamente un bene che il mondo del vino piemontese valorizzi le proprie identità, dando respiro a quelle individualità, che potremmo definire, positive e virtuose, perfettamente nel solco di quello che sembra essere il futuro del vino legato a territori precisi, individuabili, non omologabili e clonabili; dall’altra potrebbe rappresentare un rischio la frammentazione sregolata in piccole, medie e grandi “isole”, ognunacon i propri confini e interessi. Ci si potrebbe trovare nell’impossibilità di fare sentire la propria voce, di contribuire a quella massa critica che, in tutti gli ambiti, assicura potere contrattuale.
Questo è un tema sul quale oggi, a nostro avviso, si dovrebbe riflettere. Senza “tavoli” o commissioni, forum o convegni, ma all’interno delle proprie aree di competenza, accantonando egoismi e super ego. Dunque sì alla difesa delle rispettive originalità, ma senza preconcetti e verità rivelate tenendo presente che la somma dei fattori, spesso, ha più valore dei fattori stessi o di parte di loro.
Utopia? Ingenuità? Può darsi. Tuttavia, in questo momento storico, serrare i ranghi, progettare case comuni più ampie, trasparenti, collaborative, inclusive sarebbe una lezione importante per tutti, giovani e meno giovani, grandi e meno grandi, rottamatori e costruttori.
Filippo Larganà (filippo.largana@libero.it)