Commento. Dell’Unesco, della bellezza, dell’intelligenza e del far soldi con etica e rispetto di tradizione e paesaggio. Del Vinitaly e del Piemonte che vuole visibilità, ma senza sfide

inserito il 21 Agosto 2023

In questo periodo di caldo tropicale e di vendemmia (le uve per spumanti già si stanno staccando, tra una settimana toccherà al moscato e al brachetto e via via le altre tipologie) c’è chi aumenta la temperatura buttando sul tavolo temi delicati e stimolanti.

Uno è: quanto l’Unesco abbia fatto bene al territorio, all’ambiente, agli affari e alla cultura dei Paesaggi Vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato.

L’altro è: quanto ai produttori piemontesi di vino interessi ancora andare a Vinitaly e se questa fiera sia ancora strategica per il vino piemontese e se non sia il caso di organizzarsene una in Piemonte.

Unesco

L’Unesco ha riconosciuto i Paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato Patrimonio dell’Umanità nel 2014. La genesi del progetto è nota. Tutto partì da Canelli nell’Astigiano, che candidò le proprio Cantine storiche dello spumante. Poi, anche su suggerimento dello stesso Unesco, si accodarono Langhe-Roero e Monferrato. Dopo la proclamazione di Doha furono in molti a dire che era una svolta epocale, altrettanti dissero che non sarebbe cambiato granché, altri ancora, come Angelo Gaja il mitico produttore di Barbaresco, analizzarono che c’era ancora molto da fare e che non era il caso di montarsi la testa. Sante parole.

Sono passati nove anni da quel 2014. Come sono andate le cose? Beh, l’inizio non fu molto promettente. Un esempio per tutti: all’edizione del Vinitaly che seguì la proclamazione dell’Unesco nessuna Cantina e neppure la Regione Piemonte esposero nelle loro aree espositive un minimo richiamo a quella proclamazione. Una mancanza grave e un scivolone significativo, anche perché i piemontesi, per una volta, erano arrivati primi alla proclamazione dell’Unesco, ben prima dei veneti del Prosecco, che arrivarono solo anni dopo con il loro docg, e perfino dei “primi della classe”, i francesi della Champagne che forse rosicarono un poco per quel piccolo e tutto sommato lieve smacco (ma si sa come sono i francesi).

In realtà in tutti i territori interessati dalla proclamazione ci fu più di un contraccolpo. Qualcuno ricorderà i timori dei Comuni su presunti lacci e laccioli che l’Unesco avrebbe imposto ai piani regolatori. Fu tutto superato. Il nodo era far cambiare testa alla gente, agli imprenditori. Non fu facile e ancora ora ci sono resistenze e incomprensioni. Qualcuno non ha ancora capito che l’Unesco non è un’opportunità economica, ma culturale che, beninteso, può diventare economica se ci si mette intelligenza, rispetto, condivisione e quel pizzico di etica che sembra imbratti il mondo degli affari e che invece lo galvanizza, ma questo sono in pochi ad averlo compreso fino in fondo.

Torniamo alle esternazioni sull’Unesco. Oggi Gaja, insieme ad altri langaroli doc, anzi docg, dice che: «quel riconoscimento non certifica la bellezza» che «bisogna cercare il turismo lento» e che «le strade non vanno allargate». Insomma il grande produttore di Barbaresco sembra lanciare un avvertimento: attenzione al quel turismo che può snaturare la storia delle Langhe. Alcuni suoi conterranei gli sono andati dietro e hanno confermato come Unesco e successo turistico abbiano trasformato (o rischino di trasformare) le Langhe di un tempo, con relais e auto di lusso al posto di Pavese e Fenoglio.

Sarà davvero così? Per la verità le Langhe erano su quella china già prima dell’Unesco. Il grandissimo e meritato successo del Barolo e del suo ex fratello minore, il Barbaresco, insieme ad altri vini mito del Piemonte, come Moscato d’Asti e Asti Spumante che molti barolisti hanno in gamma e vendono bene, aveva già incrinato la fiaba della Langa di un tempo. Supercar e resort con piscina per ricchi italiani e stranieri – dai russi (ora spariti per ovvie ragioni) agli arabi agli americani – c’erano già prima del 2014.

Semmai con l’Unesco, e qui Gaja ha super-ragione, si sarebbe dovuto modificare e tradurre questa corsa finanziaria in modalità rispettosa dell’ambiente, delle tradizioni, della storia e del paesaggio. Insomma fare soldi in modo intelligente. Lo si è fatto? Nelle Langhe e nel Roero a fasi alterne, ci sono borghi dell’Albese che sono magnifici e intatti nonostante il pullulare di ristoranti, winebar, hotel e superfestival. Il Roero è un paesaggio magnifico con colline uniche e vigneti e borghi a perdita d’occhio. 

Nell’Astigiano e nel Monferrato forse lo si è fatto meglio, magari anche per la tradizionale lentezza con cui questi territori reagiscono alle novità. Tra Canelli e l’Acquese sono sorti, negli ultimi anni, molti B&B, agriturismo e Case Vacanze che si promuovono ben evidenziando la voce Unesco e sono perfettamente integrati nel territorio in cui agiscono. Persino i relais de charme, come sono chiamati dai tecnici, valorizzano borghi e centri storici prima semi abbandonati.

Che devono fare dunque le Langhe? Ritrovare sé stesse. Non è mai troppo tardi.

Fiere

Ad accedere le polveri sul tema “Vinitaly sì Vinitaly no” era stato qualche tempo fa l’attuale presidente (in scadenza) del Consorzio del Barolo e del Barbaresco, il produttore vitivinicolo Matteo Ascheri, tra l’altro la sua famiglia ha da poco avviato un bellissimo relais proprio a Bra.

Ascheri, dopo anni di presenza dell’azienda di famiglia, aveva deciso di non partecipare più al Vinitaly – e negli ultimi anni altri brand vinicoli piemontesi hanno deciso di non essere a Verona – paventando una grande fiera del vino piemontese.

Idea non nuova che, ad onore del vero, ha avuto alterne fortune in terra piemontese. E c’è da chiedersi se i piemontesi che hanno deciso di non andare a Verona parteciperanno a un salone autoctono. Però i tempi sono cambiati e ora barolisti e barbareschisti si fregiano di grandi e ottime manifestazioni realizzante in Piemonte che raccolgono successi di critica e pubblico.

Fare, però, un salone di vini piemontesi, tutti, nessuno escluso, potrebbe essere tutta un’altra faccenda, Sia come sia il testimone di Ascheri in qualche modo è stato raccolto da Francesco Monchiero, produttore vitivinicolo, già al timone del Consorzio del Roero e attuale presidente di Piemonte Land of Wine, il super consorzio che raccoglie tutti i Consorzi vinicoli piemontesi.

Monchiero, parlando ai giornalisti, ha lanciato l’idea, indicando anche la data del 2025, di una grande fiera di vini piemontesi, tutti, nessuno escluso, da fare, magari, alla Reggia di Venaria, splendida residenza sabauda a pochi chilometri da Torino, già location di altri eno-manifestazioni di livello.

I giornali, sintetizzando, hanno parlato di “sfida del Barolo al Vinitaly”. Ci sta nella tecnica giornalistica. Non nella pratica. Il Vinitaly, che qualcuno dà per moribondo da anni, c’è ancora e, a nostro avviso, l’ultima cosa che si deve fare è lanciare una sfida a una macchina ben rodata come quella veronese.

I piemontesi potrebbero parlare di integrazione, di approfondimento, di focus sulla propria produzione vitivinicola, inventando un format nuovo con eventi che leghino i vini al territorio con quel formidabile trait d’union, ci si perdoni il francesismo, che è, guarda un po’, proprio l’Unesco. C’è davvero molto lavoro da fare, se qualcuno ne ha voglia.  

Filippo Larganà
(filippo.largana@libero.it)


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