Dopo la visita ai Poderi Gianni Gagliardo, di La Morra, nell’albese, una delle maison vitivinicole più significative di quest’area, si potrebbe parlare della collina di Serra dei Turchi, dell’anfiteatro naturale disegnato dalle vigne di nebbiolo che si apre davanti a chi guarda, di questa parte di Langa che confina con il Roero.
Si potrebbe dare conto, e in qualche modo lo faremo, del Barolo, di un Grignolino che sorprende e certifica la definizione di “anarchico” e “testabalorda” che gli affibbiò l’inarrivabile e inarrivato Luigi Veronelli, e di un certo Fallegro, un vino bianco che rappresenta la maison e che ha trovato il suo spunto da un’uva che era quasi dimenticata, la Favorita, e si fa “democratico” adattandosi a chi lo beve.
E potremmo parlare di quanto questi vini, distanti, e pure fratelli tra loro, insieme agli altri di questa parte del Piemonte, abbiano fatto la storia e stiano facendo il futuro dell’enologia piemontese e italiana.
Eppure, prima di tutto questo, corre l’obbligo di dare conto di due notizie che hanno al centro i Poderi Gianni Gagliardo.
Si tratta, certo, di due iniziative della maison che “portano fieno” al business della famiglia Gagliardo e tuttavia ne diamo conto convinti che siano segnali precisi al mondo del vino piemontese e italiano, segnali che sono semi i cui frutti si vedranno, forse, tra un po’ di tempo, ma che vanno gettati affinché germoglino.
La prima notizia riguarda i cru, le cosiddette menzioni geografiche aggiuntive (possibile che nella bella lingua italiana non si trovi un acronimo migliore?) o, come si chiamano in piemontese, le “pusissiun”, cioè le vigne con le migliori posizioni ed esposizioni.
I Gagliardo dal 2003 hanno pensato di sottoporre i loro vigneti più speciali di nebbiolo da Barolo a un’attenta analisi filare per filare.
Spiega Stefano Gagliardo, che con il padre Gianni e i fratelli Alberto e Paolo, conduce l’azienda di La Morra: «I nostri vigneti sono tutt’altro che accorpati. Per questa ragione abbiamo sviluppato una certa dimestichezza con le vinificazioni separate di piccole partite. A un certo punto abbiamo sentito l’esigenza di fare un passo ulteriore. In ogni piccola vigna abbiamo voluto cercare in quali parti cresceva l’uva migliore. Abbiamo iniziato dalla vigna Lazzarito, poi progressivamente siamo passati altre vigne. Il lavoro è durato esattamente dieci anni, dal 2003 al 2013. Alla fine abbiamo deciso: solo da quelle viti avremmo ottenuto i nostri cru, il resto sarebbe diventato il nostro storico Barolo classico. Nessuna classifica, ovviamente, ma solo il desiderio di ottenere il massimo da ogni territorio». La prima annata in Cantina è la 2015, i vini sono già in bottiglia e usciranno a tempo debito con volumi contenuti tra le 900 bottiglie i 120 magnum. «Saranno i nostri cru di Barolo dedicati agli appassionati di questo vino, che fortunatamente sono sempre più numerosi e sparsi in ogni angolo del globo».
Insomma un messaggio glocal, tra il locale e il globale, che in mondo perfetto potrebbe essere applicato ad altri vini come la Barbera e non a caso i Gagliardo lo scorso anno hanno acquisito in quel di Agliano Terme nell’Astigiano la Tenuta Garetto, nel cuore di una delle patria della Rossa piemontese; o al Moscato che da grande vino qual è resta in attesa di una celebrazione lontano da diatribe e polemiche sterili e utili solo a coltivare orticelli. Speriamo.
L’altra notizia riguarda l’organizzazione dell’archivio storico dei vini Gagliardo.
Dice Stefano Gagliardo: «Da un po’ di tempo mettiamo da parte fino al 30% delle nostre annate di Barolo. Col passare degli anni sottoponiamo le bottiglie a una vera revisione: controlliamo la tenuta del tappo e, se necessario, lo sostituiamo per garantire la conservazione del vino. Ogni operazione viene descritta e certificata in contro etichetta, in una sorta di “libretto d’identità” che segue la bottiglia e dove è indicata anche la data di uscita dalla Cantina a garanzia di condizioni di conservazione ottimali». «Parlando in termini automobilistici – aggiunge Paolo Gagliardo – è come se stessimo parlando di una bella auto storica a chilometri zero e del tutto ricondizionata e certificata dal costruttore».
Insomma Gagliardo mette in caveau i suoi gioielli migliori a disposizione di chi li saprà apprezzare e li avrà sempre al meglio e in grado di rappresentare l’eccellenza dell’enologia di Langa.
Fin qui le novità. Non resta spazio che per un accenno alla degustazione di tre vini: il Grignolino d’Asti della Tenuta Garetto, un Barolo Gianni Gagliardo del 2014 e il “democratico” Fallegro. L’”anarchico testabalorda” ha mantenuto la promessa, un vino rosso piemontese inusuale, dai profumi al colore, ma che non si dimentica; il Barolo è diventato un moderno monarca, piacevole, che conferma le tradizioni, ma guarda avanti, tanto che si vorrebbe bere tutta la bottiglia; il Fallegro si trasfigura, suo malgrado. Al primo sorso è “ruffiano” con quella bollicina ti-vedo-non-ti-vedo, ma poi svela un carattere da mezzofondista che viene fuori alla distanza e stacca parecchi concorrenti.
La battuta finale sa un po’ di Anni Ottanta (che non erano poi così male): son proprio gagliardi questi Gagliardo.
Filippo Larganà (filippo.largana@libero.it)
complimenti!!!