Riccardo Coletti ha ragione, il suo reportage dalle colonne del quotidiano La Stampa sul caporalato della vendemmia del moscato, che ha messo a rumore il mondo del vino piemontese, non è nulla di clamoroso. È il lavoro normale che devono fare i giornalisti: scovare quello che non va e raccontarlo. Niente di più e niente di meno. Coletti, che ha 33 anni ed è giornalista pubblicista collaboratore dall’Astigiano del quotidiano di Torino, lo ha fatto perché, come molti giornalisti per fortuna, crede ancora nel ruolo di una professione che non deve raccontare solo le cose buone e belle e che fanno comodo, ma anche e soprattutto le brutture, le cose sbagliate e da raddrizzare, che per sfortuna e per colpa sono ancora molte.
Qualcuno ha detto che Riccardo ha fatto dello scoopismo, ha, cioè, cercato il marcio denigrando e danneggiando il mondo del moscato e del vino piemontese. È una visione miope, distorta e oscurantista.
Altri hanno detto che Riccardo si è inventato tutto, opponendo alle foto e alla sua testimonianza di reporter, che ha rischiato in prima persona, un muro di gomma in perfetto stile prima Repubblica.
C’è stato anche chi ha parlato di etica, preoccupandosi del danno arrecato all’immagine dei prodotti vinicoli e di quanto questo danno ha vanificato il lavoro dei Consorzi di Tutela (sul cui operato, per altro, ci sarebbe e c’è tanto da dire). Una reprimenda tanto etica da avere dimenticato quello che viene prima dei prodotti, del reddito, dei soldi, dei consorzi: le persone.
Per questo SdP ha intervistato Riccardo Coletti, per farsi raccontare da lui il perché e il percome di un’inchiesta che, speriamo, non si fermi ai titoloni, che ci auguriamo vada avanti coinvolgendo enti, istituzioni, associazioni di categoria, volontari. Insomma tutta quella società che se pretende di essere migliore di altre è meglio che lo dimostri e in fretta, distinguendosi da sfruttatori, furbetti e cialtroni (italiani o stranieri che siano) che fanno soldi facili schiavizzando e sfruttando.
E pensare che anche noi italiani, oltre mezzo secolo fa, siamo stati lavoratori stranieri: in Belgio, Francia, Germania, Inghilterra. Neppure a noi ci hanno trattato bene. Anche noi siamo stati sfruttati. Anche noi abbiamo avuto i nostri morti di lavoro. E tanti.
E oggi, sessant’anni dopo, dovremmo permettere che quattro farabutti ci facciano passare per quello che non siamo, cioè schiavisti e sfruttatori? Perché il messaggio che rischia di passare è proprio questo. E non per colpa di Riccardo, ma per colpa di anni di immobilismo e ottusità. I flussi di lavoratori accampati nel Canellese sono, infatti, iniziati, vent’anni fa. E chi scrive già ne denunciò le prime propaggini sui quotidiani. Fu scritto dei rifugi di fortuna costruiti nelle stazioni abbandonate, abitati da padri e figli in cerca di fortuna che dormivano in letti fatti di sterpaglia e stracci. Fu scritto delle tende fatte da teli di nylon, dei focolari da campo, delle latrine a cielo aperto e dei resti dei pasti frugali, il tutto a pochi passi dalle vigne di moscato e dalle abitazioni. Ma poco o nulla si mosse allora. Nessuno, a parte le Forze dell’Ordine che furono chiamate a sgomberare quei rifugi, si sentì in dovere di agire, di trovare una soluzione affinché il fenomeno non crescesse incontrollato come poi è accaduto.
Oggi che si è sbattuto il “mostro” in prima pagina, almeno si ha la speranza che le cose cambino. Perché è in questo senso, se ancora qualcuno non l’avesse compreso, che va inteso il reportage di Riccardo Coletti. È stato, cioè, la cartina di tornasole per fare emergere lo sporco e darci la possibilità di eliminarlo.
In questi giorni anche noi di SdP abbiamo raccolto storie sui vendemmiatori del moscato, che tra pochi giorni diventeranno della barbera, del dolcetto e del nebbiolo (a proposito, prima di Coletti anche Slow Wine, leggi qui, aveva evidenziato situazioni simili della zona del Barolo). Ci hanno raccontato di raccoglitori trattati male, malissimo e anche di situazioni diametralmente opposte che anche Riccardo ha registrato. Sono le due facce della medaglia. Coletti ha fatto bene a descrivere quella peggiore, perché è lì che si deve intervenire. Ha fatto il suo lavoro di cronista. Ora, dopo le indagini delle Forze dell’Ordine, le multe, le inchieste giornalistiche, il circo mediatico che dimentica in fretta e dopo le inevitabili polemiche, ci pensi la politica a cambiare le stato delle cose. È il suo ruolo. Il suo unico ruolo. Perché le cose devono cambiare e in fretta, altrimenti ci ritroveremo nuovamente a parlare di “vendemmia della vergogna” con i soliti tromboni a negare l’evidenza o, peggio, i falsi buonisti, quelli con il cuore strategicamente a sinistra e il portafogli concretamente a destra, a fare la solita lisa morale del cavolo.
Ed è questo, francamente, quello che fa più paura, lo status quo di chi dice “cambiamo tutto perché nulla cambi“. Quel gattopardismo che, come il caporalato, sembra non essere unica esclusiva del Sud.
Filippo Larganà (filippo.largana@libero.it)